Vincenzo Reccio
Sacro Cuore
Legno intagliato e policromato, cm. 180.
In pendant con la “scarabattola” di Santa Rita, sul lato sinistro del presbiterio, è posta la nicchia intagliata dall’ebanista terlizzese Luigi Brucoli, che custodisce la venerata immagine del Sacro Cuore di Gesù. La statua, di notevole vigore plastico, presenta il Cristo nell’atto di indicare al devoto il suo cuore fiammato e raggiante, mostrato concretamente quale simbolo dell’amore infinito per gli uomini da morire in croce per essi. La passione e morte, infatti, sono richiamati oltre che dalle stimmate sulle mani e sui piedi, anche dalla corona di spine che cinge il cuore e dalla croce che lo sovrasta. La statua, dono dell’arciprete Luigi Tauro (1886-1914) si inserisce nel clima di ripresa e diffusione del culto al Sacro Cuore le cui origini, ben più antiche, trovarono grande impulso e diffusione nelle rivelazioni di Cristo a San Giovanni Eudes (1601-1680) e alla mistica e poi santa Margherita Maria Alacoque (1648-1690). La festa del Sacro Cuore, celebrata il venerdì immediatamente successivo la solennità del Corpus Domini, divenne universale per tutta la Chiesa nel 1856.
Raffaele della Campa
Santa Rita da Cascia, 1902
Legno intagliato e policromato, cartapesta, cm. 160.
Sotto l’arco a sinistra del presbiterio è posta al centro, la teca neogotica, opera dell’ebanista Francesco Sasso, in cui è collocata la statua di Santa Rita da Cascia. La santa, in mistico colloquio con il Cristo, inginocchiata e con le mani unite in preghiera, è ripresa nel momento di sperimentare su se stessa i dolori della passione, simbolicamente richiamati dall’angelo che pone sul suo capo la corona di spine. L’opera, in cartapesta e scolpita in legno solo nelle parti anatomiche (il volto, le mani, l’angelo), si deve ad uno degli ultimi esponenti della grande tradizione napoletana, Raffaele della Campa, che la realizzò nel 1902 a circa due anni dalla canonizzazione della mistica e taumaturga agostiniana. Nata a Roccaporena intorno al 1381, andò in sposa ad un uomo assai più grande e malvagio che la sottopose ad ogni sorta di umiliazione prima di essere ricondotto, dalla dolcezza di Rita, alla conversione; fu ucciso e la giovane donna imploro da Dio, e le fu concesso, la morte dei suoi due figli prima che si macchiassero del peccato di vendicare la morte del padre. Perso ogni contatto mondano, entrò in convento dove fu modello di santità per tutte le consorelle che notarono, anche per i vari prodigi tra cui quello delle rose fiorite in inverno, la profondità della sua fede. Qui ricevette, in un momento di estasi e meditazione della passione di Cristo, il privilegio della spina della corona che le si conficcò sulla fronte. Morì il 1447 e il suo corpo, mai sepolto, divenne subito meta di pellegrinaggio e venerazione. Il culto popolare si diffuse rapidamente ovunque.
Giuseppe Volpe
San Michele Arcangelo, 1837
Legno intagliato e policromato, cm. 220
Patrono principale di Terlizzi a San Michele Arcangelo è dedicata, sin dalle origini longobarde del locus Terlitii, la chiesa principale. Con l’edificazione della nuova cattedrale anche l’antica e pregevole statua, corrosa dai tarli e dal tempo, fu sostituita con una nuova immagine la cui esecuzione fu affidata allo scultore locale, non privo di talento, Giuseppe Volpe. Egli raffigurò un San Michele quasi adolescente che si libra nell’aria con l’agilità di un ballerino, le grandi ali spiegate e definite da un accurato piumaggio sia intagliato che dipinto, mentre è nell’atto di indicare con l’indice della mano sinistra il male, il diavolo con fattezze umane che si dimena ormai vinto e accecato dall’odio, tra lingue di fuoco che alludono all’Inferno. La mano destra impugna con vigore l’elsa della spada. Di notevole effetto e bellezza alcuni particolari quali la lorica a squame ricoperta con argento in foglia e attraversata diagonalmente da una sfarzosa fascia tempestata a similitudine delle pietre dure. L’espressione di San Michele è serena ma allo stesso tempo pensosa, quasi assorta a meditare sulla sorte dell’umanità sempre in bilico tra bene e male, perennemente insidiata dal male che si manifesta sotto forme sempre diverse: per questo il suo sguardo va dritto al devoto che sembra esortare, indicando l’angelo che aveva osato ribellarsi a Dio, di guardarsi dalle lusinghe del maligno.
Scultore napoletano
San Giuseppe, inizi XIX secolo
Legno intagliato e policromato, cm. 157o
La statua, che forse proviene dall’ex chiesa delle monache Clarisse, raffigura il santo patriarca nella classica iconografia di uomo saggio e anziano negli anni, espediente che mette in risalto la divina paternità di Gesù. San Giuseppe, nelle movenze eleganti e ancora tutte barocche, con il braccio sinistro sostiene il bambino Gesù, dalle carni paffute e dal delicato incarnato, che accenna una carezza al padre putativo. Con il braccio destro, allargato nello spazio, stringe il bastone fiorito quale attributo specifico: facendo germogliare la sua verga secca, Dio lo prescelse e fece distinguere dagli altri contendenti e riconoscere dal popolo, quale sposo della vergine Maria da cui sarebbe nato il Salvatore. La qualità dell’intaglio e il gioco delle pieghe, specie quelle del manto arrovesciato, non lasciano dubbi sulle notevoli capacità dell’autore sebbene non se ne conosca il nome.