12 dicembre 2021 – 3^ domenica di Avvento
«Cosa dobbiamo fare?»
Vorrei cominciare proprio da questa domanda che le folle pongono al Battista sulle rive del Giordano, perché fortemente scosse dal suo annuncio profetico. Una domanda semplice, ma che rivela la disponibilità a cambiare, la voglia di ricominciare e di impegnarsi. Per questo, a pensarci bene, questa domanda non è cosa da poco. Soprattutto non è affatto frequente sulla bocca dei cristiani, perché testimonia un’apertura a Dio che implica e comporta cambiamenti di scelte, di stili, di abitudini. Più che essere un punto di partenza, direi che è un solido punto di arrivo, perché nasce dalla consapevolezza di non poter più continuare con l’illusione di tenere il piede in due staffe.
Potesse fiorire ora anche sulle nostre labbra!
C’è da notare che a porre questa domanda, la stessa domanda, sono categorie diverse di persone: le folle, alcuni pubblicani e un gruppo di soldati. Ed è significativo che le risposte di Giovanni – per nulla astratte e generiche, anzi molto concrete – tengono conto di questa differenza, e soprattutto che non esigono che abbandonino il loro mestiere e la vita che conducono.
È un altro aspetto molto interessante: lui, l’uomo del deserto, non chiede a nessuno di seguirlo nella vita ascetica. Dice piuttosto: «Restate lì dove siete, trasformando la vostra vita dentro le situazioni che vi sono abituali».
Lo scopo del vangelo è quello di farci diventare innanzitutto pienamente uomini e donne, di farci crescere in umanità. La salvezza si incarna, passa cioè attraverso la nostra umanità, un’umanità che si realizza nella solidarietà, e quindi nel superamento del proprio isolamento e la chiusura nel proprio io.
Più cresco nelle relazioni, più divento uomo.
Parlo di relazioni naturalmente dalle quali mi lascio scomodare, per le quali investo tempo, dalle quali mi lascio anche mettere in discussione. E le relazioni familiari sono, sotto questo profilo, un laboratorio per crescere in questa dimensione.
Nella famiglia l’altro ti toglie spazio e ti educa a non percepire quello spazio come privato. Nella famiglia, infatti, quando si creano questi corto circuiti, cioè il fastidio per l’altro che invade il mio spazio, vuol dire che qualcosa non funziona; quando lo spazio privato diventa totalizzante, quando non sono disposto a perderlo mai, allora vuol dire che qualcosa va rimesso a posto. Lo spazio privato ci può stare, purché non diventi rigido, sigillato, impermeabile.
La relazione coniugale è il miglior esercizio per imparare ad uscire dalla chiusura del proprio io.
Sono convinto che proprio l’assenza di questo esercizio determina nella vita consacrata, molte volte, il rischio di un profondo egoismo.
Ebbene, il vangelo di oggi, attraverso la figura del Battista, ci propone una catechesi battesimale che ha come caratteristica dominante un atteggiamento che potremmo chiamare di fedeltà alla vita, così come la stiamo vivendo.