6 aprile 2023 | Missa in Coena Domini

Carissimi,

 

la solenne liturgia di questa sera ci fa entrare nel mistero pasquale rivivendo i gesti e riascoltando le parole di Gesù durante l’ultima cena. In particolare, riviviamo il momento in cui, lavando i piedi ai discepoli, Gesù consegna il principiofondativo della Chiesa, quello cioè che fonda la qualità dei rapporti feriali all’interno della comunità cristiana. Perché è lì – nelle relazioni quotidiane che intrecciano le nostre vite – che noi costruiamo la comunione di una comunità o la distruggiamo, che noi formiamo il Corpo di Cristo o lo sfiguriamo.E le parole sono queste – le abbiamo appena ascoltate:

Se io, il Signore e Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.

Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

 

Accostiamoci a questo gesto con tremore e con gioia!

Con tremore, perché sappiamo che la sua verità è nellaquotidianità, nel concreto farci servi gli uni degli altri, entrando in un dinamismo di amore che non chiede reciprocità, ma anzi incontra ostilità e rifiuti, durezze e rigidità, incomprensioni e insofferenze.E sapendo che in esso saremo mancanti in molte maniere.

Ma ci accostiamo anche con gioia– e noi siamo realmente e profondamente nella gioia, anche se gli eventi di cui facciamo memoria sono drammatici – perché,oggi più mai, vogliamo fissare lo sguardo su Gesù, su Colui che ci ha amato fino alla finedeponendo la sua vita per noi.

Nella consapevolezza che solo così egli diviene il vero fondamento del nostro vivere la comunione.

 

È significativo che Giovanni cominci il racconto ponendo in continuità ciò che Gesù compie ora con ciò che ha sempre fatto: «Avendo amato i suoi – scrive –, li amò fino alla fine».

Gesù, anche in quelle ore drammatiche, persevera nell’amare, nella fatica dell’amare.

E il sapere che lo abita –sapere che comprende anche la conoscenza deludente dei suoi: una conoscenza che lo amareggia e che arriverà a turbarlo profondamente (Gv 13,21)–, non lo porta a smettere di amare, al contrario lo spinge ad andare fino alla fine sulla via dell’amore.

Gesù decide di amare, ne fa una scelta anche se questa scelta lo divora, lo inghiotte, lo uccide, potremmo dire. Con il suo svestirsi e vestirsi, con il suo deporre il mantello e con il suo indossare il panno di lino che lega attorno alla vita con una cintura, egli fa dell’amore il suo abito.

Sì, l’abito dell’amore è l’abito del servo, è l’atteggiamento dello schiavo.

L’amore fino alla finealtro nonè che farsi servi di coloro che si ama.

Certo, dinanzi a questo mistero viene spontaneo chiederci: che amore è questo in cui c’è tale dissimmetria tra colui che ama e coloro che sono amati? La risposta l’evangelista ce la dà: è un amore che può essere vissuto solo conoscendo il Padre, cioè, grazie alla fede!

Sicché, mentre si dice che Gesù amò fino alla fine, in verità si dice anche, e forse ancor più profondamente, che Gesù credette fino alla fine. Ebbe fede fino alla fine!

Ma il gesto di Gesù, il gesto scandaloso per cui il Signore e il Maestro si fa schiavo e compie i gesti dello schiavo, è irricevibile, e Pietro lo dice a chiare lettere: «Tu lavi i piedi a me?», «Tu non mi laverai mai i piedi!».

Pietro rifiuta un Gesù servo/schiavo. E come dargli torto: il suo rifiuto di comprendere non è banale.

Come si può accettare un Messia che per amare arriva a tale livello di abbassamento e di umiltà.

Ed ancora più irricevibile se pensiamoche Gesù arriva a chiedere tutto questo anche ai suoi, a noi!

Tutto il Vangelo, e questo in particolare, ci ricorda che la vita è sacra perché è umile: ogni spazio del sacro dovrebbe essere così se vogliamo che Dio si renda presente. C’è armonia quando non c’è prevaricazione, quando una cosa non emerge su un’altra; quando il cielo e la terra si abbracciano. Bella è l’umiltà che ci fa amare la forza della debolezza, che dà un bacio sulla fragilità di ogni frammento.

Diceva Simone Weil (filosofamistica, morta nel 1943): «Accettare un vuoto in noi è cosa soprannaturale». Che grande lezione per noi che, invece, restiamo inquieti e delusi davanti ai nostri vuoti.

Tutto oggi celebra l’umiltà di Dio! Lo stesso suo consegnarsi nel pane e nel vino sta a ricordarci e a farci fare memoria del suo desiderio profondo di farsi piccolo, di farsi cibo, per dilatare il nostro amore a misura del suo!

 

È risaputo che il quarto evangelista riporta il gesto della lavanda dei piedi al posto del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. Giovanni, con questa sua scelta precisa– spiegano gli esegeti –,intende sottolineare che dobbiamo sempre passare dal rito alla vita! Proprio questo passaggio, in verità, è un nostro problema!

Non sono pochii cristiani cui piacerebbe vivere sempre di «riti», rinunciandoa trasferirli nella vita ordinaria. È certo che anche noi – come i martiri di Abitene – non possiamo vivere senza l’Eucaristia: rimane tuttavia il fatto che se l’offerta eucaristica non la trasferiamo nella nostra vita e la nostra vita non la trasferiamo nell’Eucaristia, inutilmente ci diremo cristiani.

 

Un’ultima cosa: questa Messa è un preludio, è vero,ma ha pure il carattere della incompiutezza, e questo ne fa una liturgia davvero unica. Al suo termine, infatti, la Messa non ha alcuna formula di congedo.

Dopo la processione per riporre l’Eucaristia e la breve adorazione eucaristica, tutti ritorneremo alle nostre case senza alcun saluto da parte del ministro. Andremo via in silenzio, senza alcun canto…

Ora, dire che un’opera è «incompiuta» non è un disprezzo, ma l’indicazione della sua preziosità. In musica è chiamata così l’ottava sinfonia in si minore di F. Schubert, ma nessuno dirà che non è un capolavoro.

«Incompiuta» è ritenuta anche la famosa «Pietà Rondanini» di Michelangelo ed è anch’essa un capolavoro. Così è – così sia! – questa Messa: «incompiuta», in attesa cioè della Veglia pasquale, quando all’Ite Missa est, risponderemo cantando più volte l’Alleluia pasquale. Non solo e non tanto con le note del canto, ma anche e soprattutto con il pentagramma della vita concreta.

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