Un comandamento non solo religioso, ma anche sociale. L’Ottavo Comandamento racchiude in sé molteplici significati ed è proprio per questo che l’appuntamento di febbraio per la catechesi comunitaria della Parrocchia san Bernardino, tenuta dal parroco don Pasquale Rubini, ha focalizzato l’attenzione dei parrocchiani presenti proprio su questo comandamento.
Come spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica, l’ottavo comandamento proibisce di falsare la verità nelle relazioni con gli altri. Questa norma morale deriva dalla vocazione del popolo santo ad essere testimone del suo Dio il quale è verità e vuole la verità. Le offese alla verità esprimono, con parole o azioni, un rifiuto di impegnarsi nella rettitudine morale: sono profonde infedeltà a Dio e, in tal senso, scalzano le basi dell’Alleanza.
Come ha sottolineato don Pasquale, questo comandamento ricorda al cristiano di «vivere nella verità». Infatti, nell’Antico Testamento Dio è sorgente di ogni verità e la sua Parola è verità e, perciò, i membri del suo popolo sono chiamati a vivere nella verità. «In Gesù Cristo la verità di Dio si è manifestata interamente. Pieno di grazia e di verità, egli è la luce del mondo, egli è la verità – ha aggiunto il parroco -. Il discepolo di Gesù rimane fedele alla sua parola, per conoscere la verità che fa liberi e che santifica. Seguire Gesù è vivere dello Spirito di verità che il Padre manda nel suo nome e che guida alla verità tutta intera».
A questo punto, don Pasquale ha spiegato quelle che sono le offese alla verità:
1. la menzogna, ovvero «dire il falso con l’intenzione di ingannare»: si tratta dell’offesa più diretta alla verità. Mentire è parlare o agire contro la verità per indurre in errore. Ferendo il rapporto dell’uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamentale dell’uomo e della sua parola con il Signore. Inoltre, come ha ribadito don Pasquale, «nella menzogna il Signore denuncia un’opera diabolica»: «Voi […] avete per padre il diavolo […]. Non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).
La gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità. Perciò, è una profanazione della parola, la cui funzione è di comunicare ad altri la verità conosciuta. Tra l’altro, la menzogna (essendo una violazione della virtù della veracità) è un’autentica violenza fatta all’altro: «lo colpisce nella sua capacità di conoscere, che è la condizione di ogni giudizio e di ogni decisione, contiene in germe la divisione degli spiriti e tutti i mali che questa genera ed è dannosa per ogni società perchè scalza la fiducia tra gli uomini e lacera il tessuto delle relazioni sociali»;
2. la falsa testimonianza e lo spergiuro: «Un’affermazione contraria alla verità, quando è fatta pubblicamente, riveste una gravità particolare. Fatta davanti ad un tribunale, diventa una falsa testimonianza – ha spiegato don Pasquale -. Quando la si fa sotto giuramento, è uno spergiuro. Simili modi di comportarsi contribuiscono sia alla condanna di un innocente sia alla assoluzione di un colpevole, oppure ad aggravare la pena in cui è incorso l’accusato». Perciò, chi rende falsa testimonianza o spergiura si rende colpevole di giudizio temerario (colui che, anche solo tacitamente, ammette come vera, senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo), di maldicenza o pettegolezzo (colui che, senza un motivo oggettivamente valido, rivela i difetti e le mancanze altrui a persone che li ignorano) e di calunnia (colui che, con affermazioni contrarie alla verità, nuoce alla reputazione degli altri e dà occasione a giudizi erronei sul loro conto).
In particolare, maldicenze, pettegolezzo e calunnie distruggono la reputazione e l’onore del prossimo: l’onore è la testimonianza sociale resa alla dignità umana e ognuno gode di un diritto naturale all’onore del proprio nome, alla propria reputazione e al rispetto. Perciò la maldicenza e la calunnia offendono le virtù della giustizia e della carità. Scrive Sant’Ignazio di Loyola negli Exercitia spiritualia: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l’espressione oscura del prossimo che a condannarla; e se non la può salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dà; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi dall’errore».
3. lusinga, adulazione o compiacenza, che incoraggino e confermino altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L’adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l’amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L’adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire gradito, evitare un male, far fronte ad una necessità o conseguire vantaggi leciti.
4. iattanza, millanteria e ironia che tendono ad intaccare l’apprezzamento di qualcuno caricaturando, in maniera malevola, qualche aspetto del suo comportamento.
Naturalmente, ogni colpa commessa contro la giustizia e la verità impone il dovere di riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato. Quando è impossibile riparare un torto pubblicamente, bisogna farlo in privato: a colui che ha subito un danno, qualora non possa essere risarcito direttamente, va data soddisfazione moralmente, in nome della carità. Tale dovere di riparazione riguarda anche le colpe commesse contro la reputazione altrui. La riparazione, morale e talvolta materiale, deve essere commisurata al danno che è stato arrecato.