Convegno pastorale diocesano: preparazione verso il Convegno di Firenze 2015. Nuovo umanesimo: «partire dal concetto di umano che già esiste». Analisi dei punti fondamentali. Fragilità e bellezza: «In Gesù Cristo la verità dell’uomo è manifestata al pari di quella di Dio»
Fragilità e bellezza, un particolare binomio: quasi inaccettabile per il modus operandi e vivendi della società contemporanea. Eppure, il loro intrinseco rapporto, considerato alla luce del Vangelo e della figura di Gesù Cristo, è stato al centro del Convegno «Ogni uomo ferito è anche più uomo», che si è tenuto ieri sera nell’Auditorium “Regina Pacis” a Molfetta. Con questo convegno si è concluso il programma pastorale diocesano triennale, come ha spiegato il Vescovo, Mons. Luigi Martella, che, sullo schema delle tre virtù teologali, era stato diviso in educazione alla fede, alla speranza e, infine, alla carità. Per di più, questo convegno, come anche la Settimana Teologico (febbraio 2015), è stato preparatorio al Convegno di Firenze «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo», che si svolgerà tra il 9 e il 13 novembre 2015 (visita il sito internet del Convegno).
In effetti, la relatrice, la prof.ssa Annalisa Caputo, docente e ricercatrice in Filosofia teoretica, incaricata del Corso di “Linguaggi della filosofia” (Università degli Studi di Bari), docente invitato presso la Facoltà Teologica Pugliese, delegata regionale della Puglia al Comitato preparatorio del Convegno Ecclesiale di Firenze e membro del CVS (Centro Volontari della Sofferenza), ha incentrato il suo intervento su un’analisi approfondita della traccia per il Convegno di Firenze (scarica il pdf), partendo da una riflessione: «la nostra bellezza, la bellezza dell’umano è la fragilità». Verbo di riferimento, invece, il paradigma “gustare” inteso nel significato del Salmo 33, dunque come «gusto dell’umano, uno sguardo amorevole verso l’umano che risvegli nell’uomo stesso la dimensione affettiva».
Parlare di “nuovo umanesimo” non vuol dire «impostare un nuovo concetto o un pre-concetto di umanesimo», bensì «partire dal concetto di umano che già esiste»: «non c’è una idea da applicare alla realtà – ha spiegato la prof.ssa Caputo -, perché l’umano è ciò che siamo e ciò che è Gesù». «L’umanesimo cristiano non è “nuovo” perché contrapposto a un umanesimo antico o a un qualcosa che ormai non è più al passo con i tempi, ma è un invito a riscoprire l’umanesimo di Cristo, soprattutto se viviamo da “vecchi”, se ci sentiamo “vecchi”, se abbiamo perso la gioia del Vangelo e siamo tristi – ha sottolineato la prof.ssa Caputo -. Infatti, ci sentiamo “vecchi” perché non sappiamo vedere il bello di essere Chiesa, la straordinaria bellezza di essere uomini e donne, uomini e donne di Chiesa, uomini e donne con le loro fragilità. Solo se non viviamo da “vecchi”, scopriremo la bellezza di Gesù e, con Lui, la nostra».
A questo punto, la prof.ssa Caputo ha illustrato alcuni punti fondamentali della traccia per il Convegno di Firenze, spunti fondamentali per spiegare il tema del convegno diocesano «Ogni uomo ferito è anche più uomo». Innanzitutto, le 4 forme incarnate del nuovo umanesimo, a partire dall’umanesimo in ascolto: «In ascolto non vuol dire, appiattito sul dato di fatto, in apparenza liberante ma in realtà foriero di nuove e più cogenti schiavitù – ha spiegato la prof.ssa Caputo -, ma proteso al vissuto, alla bellezza dell’uomo pur senza ignorarne i limiti». Illuminanti, a questo proposito, due estratti della contenuti nella traccia della poetessa e filosofa Maria Zambrano:
«Esemplari suonano le parole della poetessa e filosofa Maria Zambrano: L’umanesimo di oggi normalmente è l’esaltazione di una certa idea dell’uomo, che neanche si presenta come idea, bensì come semplice realtà: la realtà dell’uomo, senza che rinunci più alla sua limitazione; l’accettazione di sé come schietta realtà psicologico-biologica; il suo rafforzamento in una cosa che ha alcuni bisogni determinati, giustificati e giustificabili. Di nuovo l’uomo si è incatenato alla necessità, e adesso per di più per decisione propria e in nome della libertà».
«Da una parte oggi è viva la tentazione di sentirsi onnipotenti: l’ha insegnato Hans Jonas con il suo “Prometeo scatenato”, immagine dell’umanità inebriata dalle possibilità tecniche e dalle sue nuove capacità. Dall’altra parte, la pretesa autosufficienza rivendicata dall’uomo lascia sempre più spazio a una altrettanto diffusa percezione del limite umano, legata alla difficoltà dei tempi, alla finitezza delle risorse ambientali, all’incapacità di costruire rapporti senso diffuso di fragilità, alla rassegnazione rispondono gettando semi di speranza».
Umanesimo in ascolto, ma anche un umanesimo concreto. «“Concretezza” significa parlare con la vita, trovando la sintesi dinamica tra verità e vissuto, seguendo il cammino tracciato da Gesù – si legge nella traccia -. Le esperienze raccontate offrono diverse sfumature di questa concretezza: riconoscere i bisogni anche meno manifesti; immaginare azioni di risposta adeguate, non ossessionate dall’efficienza; la disposizione accogliente delle varie situazioni e, in qualche modo, persino eccedente la domanda; la capacità delle azioni intraprese di fermarsi e ridefinirsi lungo il cammino». Purtroppo, come ha evidenziato la prof.ssa Caputo, «per rincorrere il perfezionismo nella Chiesa e nelle parrocchie, ci perdiamo le piccole cose della condivisione, che realizza ogni giorno piccoli miracoli silenziosi che si diffondono moltiplicandosi».
Il nuovo umanesimo non è, inoltre, un modello monolitico, ma si declina al plurale, è «prismatico», come lo ha definito la prof.ssa Caputo, «ricco di sfaccettature»: perciò, è un umanesimo plurale e integrale (non integralista).
«I volti degli uomini e delle donne che oggi sono la carne delle Chiese in Italia, con le loro rughe, più o meno profonde, potrebbero far pensare a un’umanità in frantumi, che il cristianesimo ecclesiale non ha saputo o non ha potuto salvaguardare e custodire – si legge nella traccia -. Ma contemplati “alla luce del Vangelo” si rivelano piuttosto una miriade di frammenti, non semplicemente inutili, da spazzare via. Sono, piuttosto, depositari di valori che saranno riconosciuti come tali se visti con uno sguardo d’insieme, l’uno a stretto contatto con gli altri, quasi tessere di un mosaico più vasto». Così, dai nostri volti emerge la bellezza del volto di Gesù.
Se plurale integrale, questo nuovo umanesimo non solo dev’essere ispiratore di una pastorale integrata, che sia finalizzata alla sinergia e alla collaborazione, ma deve anche tendere alla interiorità e alla tracendenza. «Umanesimo trascendente non è un ossimoro, ma riconosce – come ha spiegato Romano Guardini – che le coordinate esistenziali, il donde e il verso entro cui l’umano si sviluppa pienamente, corrispondono a feritoie che permettono di intravvedere un Altro, non relegato semplicemente oltre l’uomo stesso. La divina trascendenza e la prossimità d’amore – che nel Dio annunciato da Gesù Cristo coincidono – diventano l’ordito e la trama che s’intersecano nel fondo più intimo e delicato della persona umana, rappresentato dalla coscienza».
Punto critico, la sezione riferita all’annuncio del Vangelo: da un lato, oggi si percepisce la frammentarietà e la precarietà dell’umano, dall’altro, però, insistono tracce di una umanità inalienabile. «Il rischio è l’autoreferenzialità, che determina la mancanza di giustizia e di carità, ma è solo un rischio, non è la verità – ha aggiunto la prof.ssa Caputo -. Qual è, dunque, l’essenza dell’uomo da riscoprire? L’essere in relazione e il riconoscersi figli».
Ecco, dunque, che «Gesù Cristo non sostituisce l’umano presente e attuale, ma lo incarna, dandoci la possibilità di diventare sempre più noi stessi – ha affermato la prof.ssa Caputo -, perché nel figlio incarnato si svela il nostro essere». «La difficoltà a vivere le relazioni è determinata dalla difficoltà a riconoscersi come donati a se stessi. Una vera relazione s’intesse a partire dal riconoscersi generati, cioè figli, cifra più propria della nostra umanità – si legge nella traccia -. D’altronde, al cuore del senso dell’umano rivelato in Gesù Cristo non sta il nostro essere figli? Non comprenderemmo nulla di Gesù – il senso delle sue parole, dei suoi gesti, il suo modo di vivere le relazioni, la sua libertà – fuori dal rapporto che egli ha con il Padre, cioè il suo essere figlio, il Figlio».
Il vero umanesimo è, prima, quello di Gesù e, poi, quello di Gesù vero uomo e non solo vero Dio. «É l’umanità ferita di Gesù che mi salva, lui che si presenta all’uomo come un Dio bisogno di amore, non come un motore immobile e trascendente – ha concluso la prof.ssa Caputo -. Dio nella carne umana di Cristo ridiventa se stesso: potremmo dire che la perfezione di Dio è in parabola discendente perché è pienezza dell’amore. Dio è per l’uomo, si mette al servizio dell’uomo che è la periferia verso la quale si reca in Gesù Cristo».
«In quest’orizzonte Dio raggiunge il suo massimo in Gesù di Nazareth. Egli che è già tutto, non ha altra via per superarsi se non quella di procedere senza termine in direzione dell’uomo, scegliendo di diminuire: se è già l’Altissimo, allora si abbassa sino a terra; se è già il Signore, allora entra nella condizione del servo; se è già pienezza, allora si svuota di Sé, rinuncia alle sue divine prerogative e abbraccia la morte – si legge nella traccia -. In Gesù Cristo, dunque, la verità dell’uomo è manifestata al pari di quella di Dio». Ecco perché Dio è maggiormente in tensione verso l’uomo ferito: un nuovo umanesimo in Gesù Cristo è possibile solo se si valorizza in toto l’umanità.
di Marcello la Forgia