Don Francesco ha ispirato molte pagine di teologia vivente sul laicato. Quella teologia fondata sulla coniugazione tra fede e vita, tra Vangelo e cronaca del quotidiano.
Egli è stato testimone ed insegnante: in riunioni tra molti o in colloqui individuali ha donato numerosi consigli ed ha indirizzato l’ascoltatore verso l’importanza di quel metodo di vita che alla fine conta: la responsabilità. Il laico maturo nella vita e nella fede deve essere, secondo don Francesco, autore e responsabile di scelte chiare, coerenti, univoche e pubbliche.
Risuonano ancora nella memoria i suoi appelli ad essere laici di acqua fredda o di acqua calda, ma mai di acqua tiepida. I suoi appelli ad essere sacerdoti veri, coniugi veri, credenti veri ma mai a metà. Se subentra nella vita una crisi di stato, per don Francesco è meglio cambiare radicalmente e fare altre scelte, evitando quella subdola creazione di “doppie vite” che spesso piacciono ai credenti. Perché si può essere bravi a nascondere agli uomini la doppiezza, ma a Dio non si può farlo e, come usava ripetere, se Cristo è stato in Croce per una scelta chiara di responsabilità, anche il credente deve seguirne l’esempio e prendere la propria croce. Prendersi la propria croce crea umanità, socialità, condivisione di destini. Finanche accettava coloro che definiva i “mangiapreti”, specie quei politici che avversavano la Chiesa in nome di una laicità della cosa pubblica. Però, se il presunto ateismo derivava da azioni coerenti e da scelte responsabili, allora pensava che la Chiesa deve mettersi in dialogo e cercare intese, perché deve saper conquistare e non reclamare magari sotterraneamente.
A don Francesco non piacevano gli isolamenti. Esaltava la famiglia e riteneva che fosse il vero contesto in cui vivere. Lo diceva anche per i sacerdoti, perché soltanto la famiglia, dalla scelta vocazionale iniziale e per tutto il percorso ministeriale, sostiene la persona e lo rende forte nelle avversità successive, soprattutto del celibato. Ad una domanda postagli con la tipica curiosità e speditezza giovanile, rispose che, un giorno, i preti si sarebbero sposati, perché la famiglia è superiore a tutto, come Cristo è vissuto in una famiglia. E lui, antesignano dei corsi prematrimoniali, guidava con i colloqui individuali i giovani fidanzati a maturare la vocazione al matrimonio, sempre mediante il confronto tra Vangelo e vita.
La religiosità della famiglia è stata una delle principali preoccupazioni pastorali di don Francesco. Organizzava itinerari, creava gruppi famiglia, ascoltava molto e, con molta discrezione, si poneva come coniuge tra coniugi, introducendosi nella psicologia del matrimonio senza mai arrivare a dire che i problemi dei coniugi sono fatti loro. Contrapponeva alle facili altezzosità che si creano tra marito e moglie l’invito ad aprire il cuore alla donazione reciproca, alla comprensione, al saper fare passi indietro, al ricercare l’altro e l’altra senza aspettare inviti, al farsi umile. E dal matrimonio si passava alle identità: per don Francesco non potevano esistere le confusioni di genere, perché Dio ha creato le differenze tra uomo e donna e ciascun sesso dev’essere valorizzato secondo le rispettive caratteristiche anche sessuali. Negli anni ’80, don Francesco parlava a noi ventenni di educazione sessuale e di procreazione, sempre nel senso dell’amore e non del proibizionismo scontato.
Altro campo di azione pastorale erano i giovani. Li desiderava, li cercava, li voleva accanto a sé. Qualunque invito anche ludico lo accettava, perché i giovani li considerava degni di una giusta collocazione nella società e nella Chiesa. Non li considerava la manovalanza della parrocchia ma, citando esempi di grandiose personalità dell’Azione Cattolica Italiana, li considerava portatori di futuro evangelico. Nei campiscuola, appuntamento annuale indiscusso, confidando, che anche per l’avanzare dell’età, avrebbe preferito restare nella comoda ordinarietà della vita parrocchiale, preferiva al contrario mettersi in discussione e affrontare le contraddittorietà degli adolescenti e dei contestatori di professione di noi bollenti spiriti. Avendo vissuto il ’68, credeva che i giovani fossero una ricchezza irrinunciabile, ai quali approcciarsi non con il giudizio, ma con il consiglio, per meglio abituarli al senso di responsabilità. Anche nelle azioni più minute, quali la condivisione degli spazi comuni e l’organizzazione della giornata.
Quando don Tonino Bello annunciò l’importanza della mobilità delle tende, riferendosi all’avvicendamento dei parroci, don Francesco non esitò a mettersi a disposizione per un cambio di parrocato. Era convinto che una istituzione, un ambiente, un gruppo non può vivere avvitato sulla personalità del fondatore. Soltanto il cambio di stanza fa crescere il fondatore e i suoi sostenitori; soltanto l’introduzione di nuove mentalità fa porre la domanda se l’appartenenza ecclesiale è frutto di infatuazione o di scelta responsabile. Come Cristo ha detto che, dopo di lui, i chiamati devono dare seguito alla chiamata e vivere la responsabilità della scelta, con il cambio di parrocato tutti avrebbero avuto la possibilità di interrogarsi sull’impegno e sulla sequela. Di Cristo, non del protagonista del momento.
Vincenzo Zanzarella