Don Francesco Gadaleta: sacerdote d’altri tempi o vero esempio di sacerdozio?

«Il sacerdote a volte è un uomo esausto, sopraffatto, abbandonato come Gesù al Golgota, non si arrende mai. Poiché sappiamo che non facciamo affidamento solo sulle nostre forze. Potrebbero venire a mancare. Cristo, lui, sarà sempre fedele. Per l’eternità» (Card. Robert Sarah -“Pour l’éternitè”- Méditation sur la figure du prêtre). Quando si deve scrivere di una persona che è venuta a mancare, forse a causa della tensione emotiva, la tentazione è quella di cadere in una sterile aneddotica, quasi a voler esorcizzare la mestizia lasciata dalla perdita, pescando, dal baule dei ricordi, una serie di episodi che ne hanno caratterizzato la sua esistenza. Ancora meglio se si tratta di momenti in cui prevaleva la leggerezza e l’ilarità. E di Don Francesco se ne potrebbero raccontare tante, non basterebbero libri interi per raccoglierle.

Rifuggirò da questa tentazione, soffermandomi su due aspetti: nel commentare la sua scomparsa, spesso ho sentito dire «era un prete di altri tempi», «è stato un esempio». Man mano che lo sentivo ripetere mi chiedevo se le due cose fossero compatibili. Se fosse stato un prete di altri tempi, avremmo dovuto annoverarlo tra i cimeli del tempo passato, se invece è fosse stato un esempio, ritenerlo ancora attuale.

Dunque, vediamo come don Francesco sia stato veramente un esempio per noi, partendo da quanto per lui è stato di esempio, come scritto nel Cartoncino autobiografico per i suoi 70 anni di sacerdozio: «Il segno rivelatore fu la partecipazione alla vita associativa in Azione Cattolica parrocchiale, animata da due donne di AC con una spiritualità Cristocentrica: Marta Poli, chiamata dal popolo “Marta la santa”, sempre con un sorriso dolce e luminoso, pur vivendo per 18 anni in una gabbia di gesso, che l’avvolgeva e la reggeva fino alla testa, offriva la sua vita e le sofferenze per la santificazione dei sacerdoti e dei chierici. Flora Minutillo donna dignitosa, avvolta come in un silenzio meditativo, ma tenace nel lavoro: era a capo dell’azienda familiare e nello stesso tempo impegnata in Parrocchia, come “delegata” dei Fanciulli di AC». Un altro aspetto che val la pena sottolineare per comprendere il suo agire pastorale è il seguente: «Il primo cammino pastorale fu tutto in crescendo, specialmente stimolati dall’apertura e dalla celebrazione del Concilio Vaticano II che ci impegnava al rinnovamento - si legge sempre nel cartoncino autobiografico -. In seguito per una errata interpretazione delle indicazioni del Concilio, si contestò tutto ciò che era espressione di organizzazione, di associazionismo.”

Questo è il don Francesco che abbiamo potuto conoscere, noi che abbiamo frequentato la Parrocchia San Bernardino, dalla sua origine fino a quando, tra un certo sconcerto, al termine dell’anno pastorale per i festeggiamenti del 25° anniversario dell’erezione a parrocchia, nella Messa di ringraziamento presieduta dall’allora Vescovo diocesano, Il Venerabile Mons. Antonio Bello, sentimmo pronunciare il discorso con cui rimetteva lui il suo mandato di parroco, che fu accolto dal Vescovo.

Il caro don Francesco Gadaleta, alle 5:30 del mattino, lo si poteva trovare sul sagrato della chiesa di San Bernardino con il suo breviario, in silenziosa e solitaria meditazione, con cui prendeva ispirazione dalla Parola di Dio, dalla soavità dei Salmi e dalle meditazioni dei Padri della Chiesa, come «colui che ha sete» e che «è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte» («Commenti sul Diatessaron» di sant’Efrem il Siro, diacono). Così attingeva l’energia spirituale per cominciare la sua giornata al servizio della gente del territorio parrocchiale.

Conosciamo la sua metodicità, che gli ha permesso di conoscere ogni angolo della sua parrocchia: aveva tutto ben an mente, perché ad ogni numero civico, in ogni casa, in ogni nucleo abitativo, vivevano quelle anime di cui lui si è instancabilmente preso cura, non facendo mai mancare loro la grazia santificante dei Sacramenti.

Infatti, dopo la Messa del mattino, non lo si trovava più in parrocchia, perché in giro per il quartiere, per la confessione, per portare la comunione agli ammalati o per incontrare la gente e portare loro una parola di conforto cristiano. Il “suo” quartiere, non costituiva solo un raggruppamento indistinto, ma era costituito da persone da curare amorevolmente, con tutta la carità cristiana di cui era capace. E anche noi, all’epoca ragazzi, adolescenti e giovani, siamo stati segnati inesorabilmente a fuoco dal suo carisma, dal suo paterno e, talvolta, autoritario modo di fare, ma sempre pronto a consigliare, valutare, talvolta rimproverare, perché don Francesco era conscio che stavamo in un’età nella quale eravamo tutti ancora “plasmabili” e che quello era il tempo giusto per poter formare dei veri uomini e veri cristiani.

Chi ha frequentato la parrocchia all’epoca, andava a colloquio personale con lui non meno di tre quattro volte l’anno, tant’è che avevamo denominato quel colloquio, che era per lo più improvviso, come uno stare “sotto torchio”. E così è riuscito a plasmare il legno verde per fare di ciascuno di noi un’ “opera d’arte”, ma sempre rispettoso delle singole individualità.

Tutto questo (e tanto altro) è stato don Francesco, sacerdote ed educatore da imitare anche ai nostri giorni. Sacerdote d’altri tempi o vero esempio di sacerdozio? Semplicemente, come si addice anche oggi, al sacerdote, un altro Cristo.

 

Vito Palmiotti

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