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Da un giorno all’altro siamo stati catapultati in una situazione surreale e paradossale. Messe senza il popolo, celebrazioni dei funerali vietate, dilemma se le chiese dovevano rimanere aperte o chiuse, catechesi e momenti formativi sospesi, distanziamento sociale che significava mancata possibilità di incontrarsi. Si è creata una pandemia di desolazione accompagnata dalla paura del contagio e da un dolore profondo alimentato da immagini televisive e “bollettini di guerra” che indicavano un numero impressionante di morti e annunciavano il collasso della sanità italiana. Eppure in questo tempo complesso e difficile la Parola di Dio ha interpellato le nostre coscienze a prendere il largo, anche se era notte. Come prete sono stato spronato ad assaporare il silenzio delle nostre chiese che sono rimaste aperte come segno di speranza per favorire l’adorazione personale dell’Eucarestia. Gesù, realmente, è rimasto nella sua casa: nella nostra storia e nel territorio, dove i suoi fratelli amano, soffrono e vivono la quotidianità. E se non è stato possibile celebrare con il popolo, soprattutto la Settimana Santa, un prete non può non celebrare per il suo popolo e neppure abbandonarlo chiudendosi in casa. La sua abitazione è il luogo in cui la volontà di Dio lo ha posto. Altrimenti non sarebbe un pastore, ma un mercenario.
Questo periodo ha favorito in me una ginnastica del desiderio delle celebrazioni partecipate e curate, dei sacramenti vissuti veramente come azione di Dio e della Chiesa e di un vivere ecclesiale nella catechesi, nella formazione e nel semplice guardarsi in faccia per parlare, sorridere e attraversare anche gli inevitabili attriti che scoppiano in gruppi composti di persone. Tutto questo per favorire una comunità che sia attenta alle sfide attuali in ascolto dei segni dei tempi. Ha stimolato un’inventiva pastorale che facilitasse la creatività della carità incoraggiando una rete di aiuto per coloro che hanno vissuto il dramma della crisi sanitaria e sociale toccando con mano una generosità eccezionale del nostro popolo che mi ha manifestato la provvidenza paterna di Dio.
Sono diventato un po’ più social non per creare una Chiesa virtuale, ma per vivere l’emergenza con gli strumenti che il mondo contemporaneo ci offre al fine di far sentire le nostre chiese domestiche unite in una medesima comunione ecclesiale. Ho avvertito una vicinanza straordinaria a Papa Francesco, al nostro Vescovo e a tutti i sacerdoti del mondo che hanno condiviso con l’umanità il peso della croce e con la loro testimonianza hanno invitato a guardare il presente con speranza. Come prete ancora una volta sono stato toccato dalla presenza salvifica di Dio dallo sguardo dei poveri, dalle famiglie in difficoltà, dalle lacrime dei moribondi, dai sentimenti di chi è rimasto solo, da coloro che si sono sentiti smarriti, dai ragazzi, dai giovani, dagli adulti che in molteplici modalità mi hanno annunciato il Vangelo della misericordia. Tale esperienza mi ha portato a riconsiderare l’essere umano con la sua specifica dignità nel contesto delle relazioni sociali, ecclesiali e ambientali che stiamo vivendo, avvertendo l’esigenza di una svolta in termini di essenzialità e di prossimità partendo dall’umile consapevolezza che la Chiesa è una comunità composta di persone fragili, bisognose della presenza del fratello e della grazia di Dio.
Essenzialità significa rimotivare la nostra adesione a Cristo ponendo in lui ogni speranza, professando la fede battesimale con la coerenza della vita mettendo in pratica il Vangelo, sine glossa. Prossimità indica cinque vicinanze: la prima a Dio nella preghiera personale e comunitaria che diventa stile della vita quotidiana, la seconda alla Chiesa di cui ci sentiamo membri e figli, la terza alla società civile di cui condividiamo la responsaresponsabilità per la costruzione del bene comune, la quarta alla carne sofferente di Cristo viva nel povero, nel malato, nell’abbandonato, in chi vive situazioni difficili e in colui che è in ricerca della verità, la quinta al creato nel quale l’essere umano è immerso come con-creatura uscita dalle mani di Dio.
Umiltà è capacità di ritornare a pensare, ad ascoltare, a leggere, a studiare la Sacra Scrittura, la teologia e gli apporti delle scienze umane e sociali per intraprendere un cammino comunitario che non guardi al passato ma che miri a indicare, senza cadere nell’attivismo, modalità concrete e collaborative affinché «Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. […] E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22)» (Papa Francesco, Incontro con i rappresentanti del V Convegno Nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015). Fragilità dice la preziosità delle persone, della Chiesa, della catechesi, della liturgia, della carità, della corresponsabilità, dei gruppi, delle associazioni, delle città e del creato ma anche la loro delicatezza la quale spesso nasconde delle ferite che solo con rapporti, ambienti e intenzioni costruttive e mediante la presenza salvifica della grazia di Cristo possono essere trasformate in segni di resurrezione.
Tali pensieri, frutto della condivisione della Parola di Dio tra un parroco e il suo popolo, al tempo della pandemia, possono essere delle linee per non cedere alla tentazione tutta ecclesiale di dire: si è sempre fatto così! E in tal modo si tenta di tarpare le ali allo Spirito Santo che vuole suscitare nella Chiesa una rinnovata Pentecoste.
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