Parlare di pace in questo momento storico può sembrare assolutamente scontato. Ma partire dalla settima beatitudine «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt. 5,9), ci aiuta a capire il significato evangelico del termine “pace”, strettamente legato ai concetti di giustizia e misericordia e applicato agli ambiti della nostra vita quotidiana. Proprio per questo motivo, il ritiro parrocchiale di Quaresima è stato incentrato su questo tema.
Dopo la riflessione iniziale di don Raffaele, i presenti si sono divisi in 4 gruppi di studio – giovanissmi, giovani e due gruppi di adulti – avendo una traccia da seguire con delle domande per la meditazione personale e di gruppo. Il ritiro si è poi concluso con la Santa Messa delle ore 12:30, in cui sono state condivise con l’assemblea le riflessioni dei vari gruppi.
L’introduzione di don Raffaele
«La settima beatitudine ha un carattere prevalentemente attivo, perché ci invita a trasformare l’ambiente in cui viviamo, come la Parrocchia, la famiglia, il condominio, il lavoro, ecc. – ha spiegato don Raffaele nel suo intervento meditativo iniziale -. Infatti, l’uomo non può restare indifferente dinanzi al Signore e alle provocazioni che il mondo prospetta, ma deve imporsi un cambiamento di vita».
Peraltro, non dobbiamo confondere l’essere pacifici con l’essere operatori di pace, perché «questa beatitudine pone l’accento sulla forza d’animo e sulla volontà di produrre situazioni di pace laddove regnala tensione, la conflittualità, la rivalità, la guerra, la vendetta, la supremazia intellettuale». E la pace «deve essere intesa come frutto dell’amore e della concordia e non come imposizione da parte di una autorità», ha evidenziato don Raffaele: «il cristiano non solo deve predicare o invocare la pace, ma deve mettere in atto gesti o opere di pace, iniziando dalla propria vista ed estendendola agli altri».
Questa pace, che è Cristo, si basa su due motivi fondamentali: la riscoperta di Dio come Padre di tutti e creatore dell’universo (come metterci l’un contro l’altro se siamo figli dello stesso padre?) e la capacità di amare e perdonare, manifestata da Cristo nella sua passione. «Cristo è stato il primo e il più grande operatore di pace, pagando questo compito con la morte in croce – ha aggiunto don Raffaele -. Egli ha voluto dire agli uomini che c’è una sola via da percorrere per riscoprirsi e realizzarsi come fratelli e figli di un unico padre, ovvero la via dell’amore, che è una via faticosa che può portare anche alla croce».
Dunque, «il dono della pace non è una realtà da custodire e farsene propria nel segreto del cuore, ma da testimoniare al mondo e da far circolare nei rapporti umani»: l’invito conclusivo di don Raffaele è stato proprio quello di seminare la pace, la giustizia e la misericordia anche nei nostri ambienti, quello di «essere operatori di pace, di comunione, di riconciliazione» proprio perché figli di Dio.
La riflessione dei giovanissmi
«La pace terrena, che nasce dall’amore del prossimo, è essa stessa immagine ed effetto della pace di Cristo che promana dal Padre» (“Gaudium et Spes”, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo). Con questa frase è iniziato il momento di riflessione dei giovanissimi, che hanno elaborato una personale opinione sull’argomento. A supporto del documento della Costituzione pastorale, sono state fornite delle domande, riguardanti la quotidianità: “Ti senti uomo/donna di pace? Quale pace porti al prossimo? Quando ti sei sentito strumento della Sua pace? Cosa ti ha aiutato ad esserlo? Cosa ti ha scoraggiato ad esserlo?”.
Tutti abbiamo un lato pacifico e un lato peccatore, per questo non sempre riusciamo ad essere operatori di pace, soprattutto in determinate situazioni: quando c’è un litigio o quando succede qualcosa di grave. In quel momento, si deve scatenare qualcosa nel nostro cuore: la chiamata di Gesù. Essere operatori di pace è tutt’altro che facile, perché la pace per essere vera impone il sacrificio di qualcosa a te molto caro e, per essere in pace con gli altri, devi scatenare una guerra dentro di te.
Per quanto ognuno di noi si possa impegnare, non riuscirà mai a dare una pace al mondo come quella che può dare Gesù: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. La pace che vi do io non è come quella del mondo: non vi preoccupate, non abbiate paura» (Gv 14,27-31). Questa pericope ricorda all’essere umano quanto sia imperfetto rispetto a Dio.
Gesù è morto per noi. Noi cosa facciamo per Gesù? Cosa facciamo per il prossimo? Cosa facciamo per noi stessi? Da queste domande dobbiamo ripartire, dobbiamo dare un senso alla nostra vita diventando operatori di pace, attraverso un lungo cammino di preghiera, penitenza e silenzio.
Sulla base del Vangelo e del documento conciliare “Gaudium et spes”, la riflessione si è focalizzata sulla domanda “quando mi sono sentito strumento di pace” e “quando non sono stato strumento di pace”. Tutto il nocciolo nella condivisione in gruppo, dopo un momento di deserto personale, ha avuto come vertice la situazione attuale in Ucraina. Diverse sono state le riflessioni filosofiche riportate, come la teoria di Hobbes secondo cui “l’uomo è un lupo per l’uomo dove vede l’altro come minaccia”. Anche se non c’è solo questo alla base, in quanto siamo esseri dotati di ragione e non solo diremmo.
Il fondamento della pace è la giustizia e sono coessenziali. Pace e giustizia sono fondamentali per la crescita ed il benessere al fine di sconfiggere violenze, povertà e soprusi. La pace non è buonismo o ricerca della tranquillità personale (non avere contrasti con nessuno), ma occorre affrontare le situazioni con diplomazia, unica risoluzione alle controversie, per contemperarne gli interessi in contrasto e favorire la reciproca collaborazione per la soddisfazione di comuni bisogni.
I gruppi di studio degli adulti
Primo gruppo
Pace non è buonismo. Purtroppo il modello consumistico della nostra società e il desiderio sfrenato di autosoddisfazione cozza nettamente con il pensiero della pace e nel momento in cui non soddisfiamo la nostra avidità, guardiamo il mondo con occhi cattivi.
Papa Francesco insegna che Dio è fonte di amore, che genera bene, per cui tutto ciò che non è pace non proviene da Dio, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che il Male esiste e solo la preghiera lo allontana dal mondo.
Essere operatore di pace significa avere il compito di essere persone spirituali che scommettono sul fatto che la pace ci sarà. La pace è un modello valoriale fatto di atteggiamenti, la pace è legalità che ti porti dentro, è costruzione che comincia da subito. E se la nostra pace altro non è che una parentesi fra due guerre, quella del Signore è un dono che nasce dal suo immenso amore per noi sue creature.
Non è facile essere operatori di pace negli ambienti in cui viviamo, perché non solo ci sono incomprensioni che a volte è difficile superare, ma siamo circondati da atteggiamenti di protagonismo, egoismo e falso perbenismo. Dobbiamo, comunque, insistere se ci chiamiamo figli di Dio: dobbiamo partire dalle piccole cose, sforzandoci di amare i nostri nemici o avversari e cercando di essere testimoni di pace.
Dobbiamo capire ancora il reale significato di quanto di scrive Paolo nella Lettera agli Efesini: «non tramonti il sole sopra la vostra ira» (4:26-27). Allo stesso tempo, non dobbiamo pensare che la pace sia assenza di contrasto o discussione, perché significherebbe appiattirci e lasciarci vincere dal mondo: anche nei litigi dobbiamo essere costruttivi e dobbiamo portare giustizia (senza giustizia non esiste pace), senza mettere inutili toppe.
Purtroppo, tra persone non sempre è possibile un accordo e questo può provocare una rottura: è solo con l’amore che si supera la discordia, anche quando dall’altra pace non esiste la volontà di “far pace”.
articolo scritto unendo i contributi di don Raffaele Tatulli, Leonardo Capurso (Giovanissimi), Anna Maria Caputi (Giovani), Marcello la Forgia e Caterina Minervini (Adulti)