La Lettera “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, datata 14 luglio e pubblicata il 22 settembre 2020, oggetto di specifica approvazione da parte di Papa Francesco, ripercorre tutte le tematiche del “fine vita” e si propone di fornire un chiarimento morale ed un indirizzo pratico.
Gesù, buon samaritano
Il Buon samaritano è l’immagine di Gesù che si prende cura delle ferite e del dolore dell’uomo e che chiede a tutti noi di “stare” vicino ai sofferenti, senza impotenza o rassegnazione, quale segno vivente di affetti, legami, intima disponibilità all’amore, che permettano al sofferente di ridare senso al tempo della malattia.
La malattia e la sofferenza generano una inesauribile domanda sul senso del vivere. E se è vero che proprio in Cristo troviamo l’esperienza dell’incomprensione, del dolore fisico, dell’angoscia e che nella Sua Croce sono concentrati tutti i mali (fisico, psicologico, morale e spirituale) e le sofferenze del mondo, è altrettanto vero che la speranza che Cristo trasmette al sofferente non è soltanto un’attesa per il futuro migliore, ma anche uno sguardo sul presente che lo rende pieno di significato.
Nella storia l’ultima parola non è mai la morte ed il dolore, perché Cristo risorge nella storia e nel mistero della Risurrezione, a conferma dell’amore del Padre che non abbandona mai.
Come sotto la Croce “stavano” la madre ed i discepoli di Cristo, così ai cristiani è chiesto di “stare” con il malato, perché lo “stare”, non la semplice curiosità, è uno dei segni dell’amore e della speranza che il cristiano porta in sé.
Vita e dignità umana
Per i cristiani il fondamento della dignità è costruito su una roccia forte e stabile: l’uomo, in qualunque condizione fisica o psichica si trovi, mantiene la sua dignità originaria di essere creato ad immagine di Dio. La vita è un dono, è sempre un bene e questa verità è già percepibile dalla retta ragione e la luce della fede conferma e valorizza l’inalienabile e indistruttibile dignità della vita.
Con un esempio illuminante, la Lettera afferma che, come non si può accettare che un altro uomo diventi nostro schiavo, anche se lo chiedesse in una apparente situazione di coscienza e volontà, così non si può aderire alla richiesta di un uomo di essere ucciso, perché non si tratterebbe per nulla di valorizzare la sua “autodeterminazione”, ma di disconoscere sia il valore della sua libertà, fortemente condizionata dal dolore e dalla malattia, che il valore della sua vita.
La cultura della morte e dello scarto
Quali sono gli ostacoli culturali che si contrappongono al valore sacro di ogni vita umana? I concetti di “morte degna” e di “qualità della vita”, che conducono a ritenere la vita degna di essere vissuta solo se possiede un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio della persona stessa o di terzi (medici, giudici, comitati etici), negando in radice l’essenziale dignità intrinseca di ogni persona.
Si tratta di una distorta concezione della “compassione” che, anziché significare un “soffrire con” ed accogliere il malato, consiste nel provocare la morte, unico rimedio contro la sofferenza: è un individualismo crescente che stenta a riconoscere il valore della propria e dell’altrui vita all’interno della relazioni intersoggettive (coniugali, genitoriali, di amicizia ed altre) e che vede, proprio negli altri, una minaccia ed un ostacolo alla propria libertà.
Si sfocia così nella solitudine, terreno fertile per la richiesta di eutanasia, pervenendo a qualificare l’aiuto a coloro che sono in una situazione di indipendenza non un dovere morale, ma il risultato di un accordo sociale.
Eutanasia e suicidio assistito
L’eutanasia è un crimine contro la vita umana, la cui valutazione morale non può dipendere da alcun bilanciamento di principi, per la essenziale e decisiva considerazione che il valore della vita, l’autonomia, la capacità decisionale e la qualità della vita non sono sullo stesso piano.
Per quanto riguarda il rapporto tra lo stato ed il cittadino, la Lettera afferma che «nessuna autorità può legittimamente imporlo, né permetterlo, in quanto si tratta di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità».
Con la medesima forza la Lettera afferma che nessun fine può giustificare l’eutanasia e che essa non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva, con rilevanti implicazioni in tema di obiezione di coscienza.
Per quanto riguarda la persona che domanda l’eutanasia o l’assistenza al suicidio, la Lettera, nella consapevolezza che il dolore prolungato e insopportabile, l’angoscia e la disperazione, ragioni di ordine affettivo o diversi altri motivi possano indurre qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte e procurarla ad altri, da un lato, ritiene possibile che in casi del genere la responsabilità personale possa essere diminuita o perfino non sussistere, dall’altro, ribadisce che anche l‘errore di giudizio della coscienza, sia pure in buona fede, non modifica la natura dell’atto, in sé sempre inammissibile.
Considerazioni analoghe possono essere svolte per il suicidio assistito, il quale rappresenta una indebita collaborazione ad un atto illecito, non espressione di autentico aiuto al malato ma di aiuto a morire.
La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravata dall’isolamento e dallo sconforto, situazioni che non possono lasciare indifferenti; al tempo stesso, laddove eutanasia e suicidio assistito sono ammessi dalle leggi, non esauriscono i loro effetti nell’ambito di una sfera strettamente individuale, in quanto estendono i loro effetti all’intera società.
La Lettera afferma, infatti, che tali leggi colpiscono “al cuore” il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana.
Accanimento terapeutico
La Lettera riafferma l’ormai tradizionale orientamento del magistero per il quale nell’imminenza della morte inevitabile è lecito, in scienza e coscienza, prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso, avendo cura di precisare che ciò non comporta mai l’interruzione delle cure normali dovute all’ammalato in questi casi.
Pertanto, non è lecito sospendere le cure volte a sostenere le funzioni fisiologiche essenziali finché l’organismo è in grado di beneficiarne (idratazione, nutrizione, aiuti adeguati alla respirazione, supporti alla termoregolazione).
La loro somministrazione va sospesa solo quando l’organismo del paziente non è in grado di assorbire o metabolizzare le sostanze nutrienti e i liquidi fisiologici, in quanto, in questa e soltanto questa ipotesi, non si anticipa la morte per privazione degli stessi liquidi e sostanze, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale.
Nel caso dell‘accanimento terapeutico, si tratta della rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati, dove la proporzionalità si riferisce alla totalità del bene dal malato, essendo escluso ogni falso discernimento morale che scelga tra valori.
Cure palliative
Esse sono strumento prezioso per accompagnare il paziente nelle fasi maggiormente dolorose della malattia: sono l’espressione più autentica dell‘azione umana e cristiana del prendersi cura. Di esse deve far parte l’assistenza spirituale al malato ed ai suoi familiari.
La Lettera critica quelle normative nazionali che, in maniera del tutto mistificatoria e menzognera, includono, all’interno delle cure palliative, la possibilità di richiedere eutanasia e suicidio assistito, attraverso la somministrazione di farmaci o l’interruzione di nutrizione e idratazione.
Tratto dall’articolo «Samaritanus Bonus» di Marco Schiavi pubblicato dal Movimento per la Vita Ambrosiano di Milano