[vc_row][vc_column][vc_column_text]
Lo scorso 25 settembre, la Corte Costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita ritenendo «non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Per comprendere meglio l’inaccettabilità etica di tale decisione, è necessario fare alcune riflessioni alla luce della bioetica personalista. Ogni persona è una «sostanza individuale di natura razionale» (“Naturae rationalis individua substantia”, Boezio – VI secolo). Essere “sostanza” vuol dire che appartiene a se stesso, esiste in sé e per sé e non in rapporto o dipendenza da un altro. La sostanza è “individuale”. È unica ed irripetibile, insostituibile. Per una mamma, nessun figlio è mai sostituibile con un altro.
Infine, la razionalità. Essa indica l’insieme delle capacità superiori dell’uomo: intelligenza, amore, sentimenti, moralità. Non è necessario che la razionalità sia “attuata”, ma che sia presente come capacità essenziale: è persona chi dorme, l’embrione, il ritardato mentale, il malato terminale. Da qui deriva la differenza tra il concetto di “persona” e quello di “personalità”, dove quest’ultima esprime la progressiva manifestazione delle caratteristiche della persona. Un individuo non è persona perché si manifesta come tale, ma al contrario si manifesta così perché è persona.
Al concetto di persona è intrinsecamente legato quello di dignità: in quanto persona, per la sua “sublimitas”, gode di una dignità che si presenta come caratteristica intrinseca, ossia non per riconoscimento o attribuzione esterna ed assoluta, non correlata a nessuna condizione o condizionamento. È questo il fondamento del personalismo ontologicamente fondato.
Per noi cristiani, la persona umana vivente ha un valore ancora più grande in quanto creata da Dio a sua immagine e somiglianza, redenta da Cristo e destinata alla vita eterna. Papa Francesco, nell’enciclica “Laudato sì”, afferma: «Ogni persona umana non è soltanto qualche cosa ma qualcuno. E’ capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone. San Giovanni Paolo II ha ricordato come l’amore del tutto speciale che il Creatore ha per ogni essere umano gli conferisce una dignità infinita». E Benedetto XVI, nell’omelia per il solenne inizio del suo ministero petrino (24 Aprile 2005), ribadisce che «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario». Quindi chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di una persona, che essa sia un malato terminale o un soggetto sano, dovrebbe essere punibile in quanto lo stato di malattia non modifica la dignità e l’essere della persona.
È importante a questo punto distinguere l’eutanasia dal rifiuto del cosiddetto accanimento terapeutico, cioè il ricorso a «certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbe sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia». «La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte». Pertanto, la stella polare che deve guidarci ed orientare gli operatori sanitari, nell’ottica del personalismo ontologicamente fondato, è la ricerca sincera del vero bene della persona-paziente nella sua integralità.
Il medico deve mirare a fare tutto il possibile, solo il possibile, e farlo il meglio possibile. Fare tutto il possibile perché la vita della persona umana possiede un valore trascendente, ossia non legato al tempo e allo spazio, non misurabile, non influenzato da circostanze esterne all’essere stesso della persona (razza, età, stato di salute, ecc.). Nel 1980 la “Dichiarazione sull’eutanasia (Iura et Bona)” della Congregazione per la Dottrina della Fede al paragrafo IV affermava: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi». Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 conferma sinteticamente questa dottrina: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’”accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire».
I medici devono, secondo scienza e coscienza, stabilire se i trattamenti attuabili siano privi di efficacia o i cui benefici siano “sproporzionati” rispetto agli eventuali effetti nocivi, rischi, costi, ecc. tali da renderli moralmente inaccettabili. Anche il paziente, se è in condizione di farlo, o un suo tutore (in caso di incapacità) deve valutare, con i medici che lo hanno in cura, in un clima di sereno ed approfondito dialogo che dà vita alla nota Alleanza Terapeutica, se il trattamento proposto presenti un carico straordinario di sofferenza fisica, psichica, economica, etc. «Nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere dei medici veramente competenti» (“Iura et Bona”, 1980).
Sicuramente un atto medico proporzionato ed ordinario risulta moralmente obbligatorio sia per il medico che per il paziente. «Diversamente, un intervento proporzionato e straordinario, in linea di principio, lascia al paziente la libera facoltà di ricorrervi o meno» (Mons. E. Sgreccia, “L’Osservatore Romano”, 11-12 ottobre 2004). Sarebbe moralmente inaccettabile, invece, se i medici si astenessero da certi trattamenti o interventi, ritenendo la “vita” di quel paziente di bassa qualità e svuotandola del suo valore e della sua dignità.
Concluderei questa mia riflessione con un’affermazione di Mons. E. Sgreccia, pubblicata su “Avvenire” più di 20 anni fa, ma tutt’altro che superata: «Chi sa che ogni creatura umana porta l’immagine del Creatore e che ogni corpo umano vivente è membro del Corpo di Cristo ha una ragione superiore per confermare, non per sostituire, la fondazione ontologica della persona che è valore uguale in tutti, credenti e non credenti» (“Avvenire”,11 giugno 1992).
dott. Nicola Sgherza (classe 1980, il dott. Nicola Sgherza, Ematologo, è oggi medico nel reparto di Ematologia dell’Ospedale A. Perrino di Brindisi (in precedenza presso l’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo). Nel 2017 ha anche conseguito il Diploma di Perfezionamento in Bioetica presso L’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma)
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]