«La povertà è una compagna ardente e temibile; è la più antica nobiltà del mondo. Ben pochi ne sono degni» (Andrè Suares, Peguy). Dal latino povero è il pauper, in greco il pauros, il piccolo, colui che ha appena il necessario per vivere. «Povertà» e il suo contrario, «ricchezza», sono concetti dinamici con valenze diverse a seconda del luogo e della società. Sono, come si usa dire, variabili sociali e culturali: più una società riesce ad affrancarsi dai bisogni materiali (cibo, casa, vestiario) più la povertà assume nuove connotazioni.
Pensiamo alla società consumistica: la perpetua creazione di bisogni non estingue le nuove sacche di povertà, legate a insoddisfazione o a stati di frustrazione. Eppure gli antichi erano soliti affermare che «Primum vivere deinde philosophari» (“innanzitutto si pensi a vivere e poi a fare filosofia”): la povertà materiale, capace di mordere sempre di più, è il risultato di una distribuzione ingiusta dei guadagni generati da questa globalizzazione.
Lo conferma l’ultimo rapporto Oxfam. Essa è frutto di un’economia politica pensata per l’1% della popolazione mondiale. Nel 2015, solo 62 persone, le più ricche del mondo, possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone. «La sfida principale da affrontare nel nostro mondo globalizzato è la crisi della disuguaglianza: tra le nazioni, ma anche all’interno delle nazioni» (Amartya Sen, premio Nobel per l’economia). Come dargli torto, soprattutto in questo tempo di pandemia!
La povertà materiale, dunque, ma non solo. Possiamo intenderla anche come sterilità, mancanza di idee, di valori, di progettualità, di speranze, di profondità. Un’altra povertà dunque, capace di appannare ogni tensione intellettuale, morale e spirituale. Di questa povertà «frutto del nichilismo, soffrono molti adulti e giovani di oggi, cresciuti, purtroppo, nella negazione di ogni valore, nella mancanza di senso, nell’assenza di verità e di speranza nel futuro» (U. Galimberti).
Ma la citazione di Andrè Suares con cui abbiamo aperto ci ricorda che c’è anche un’altra povertà, salutare e generativa. Quella povertà materiale, scelta da tanti uomini e donne, capace di rendere migliori, più liberi, più sensibili: una povertà capace di prossimità generativa. Si tratta della povertà intesa come sobrietà. Papa Francesco, nella Enciclica Laudato Si’, lo ha ricordato, attraverso l’invito ad uno stile di vita più sobrio.
Quali sono i suoi effetti? Libera dall’ossessione del consumo, dall’attaccamento eccessivo ai beni e dall’inutile accumulo di piaceri, rende la persona più presente e attenta alla realtà e aiuta a comprendere che “less is more” (“il meno è di più”): di più in felicità, libertà, condivisione, fraternità, pace con se stessi, con gli altri e con il creato. Si, è attraverso questa povertà che la nostra atavica illusione di onnipotenza si sgonfia: «La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario … Si può aver bisogno di poco e vivere molto» (Papa Francesco, LS, 223).
Francesco de Leo
seminarista